Ritrovarsi a vivere una quotidianità nuova che presto diventa routine ormai è prassi.
“Perché non interpretare allora il tema del quotidiano?”
Siamo partite proprio da questa domanda io e Paola Lucrezi, per poi incidere le nostre matrici a distanza.
Sì, perché il periodo è quello che è ed è in risposta a questo che abbiamo pensato di rappresentare a modo nostro ciò che fa parte della quotidianità di tutti noi. Infatti le cinque xilografie che abbiamo realizzato sono una rappresentazione di oggetti e spazi che conosciamo bene, su cui tuttavia non ci soffermiamo abbastanza proprio perché diventati invisibili.
Paola Lucrezi si è laureata in pittura e incisione all’Accademia di Napoli. Ha frequentato il corso di specializzazione in tecniche calcografiche presso la Fondazione il Bisonte, dove ho avuto il piacere di conoscerla. Le sue incisioni fanno parte di un mondo a me sconosciuto e per questo affascinante. Le mani, le figure, le finestre si concatenano l’un con l’altra e danno origini a una visione dell’inconscio che pizzica e risveglia chi le osserva.
Venendo da due realtà diverse, ma simili, abbiamo deciso di collaborare per uno scopo comune: il tema del quotidiano. La cosa bella e stimolante del progetto è che io e Paola ci siamo confrontate di volta in volta sul tema del giorno e poi ognuna ha elaborato la propria immagine. Solo al momento della pubblicazione finale sui social scoprivamo a cosa aveva pensato l’una e l’altra.
M – Ti sei ispirata a qualcuno?
P – Non mi sono ispirata a nessun artista in particolare, almeno non consapevolmente. Tuttavia, ci sono artisti dei quali, nel tempo, continuo a subire l’influenza: mi vengono in mente in particolare la grafica espressionista tedesca, Max Ernst, la pratica dell’automatismo surrealista.
A tal proposito, nonostante tu abbia ritratto gli oggetti del tuo quotidiano in una forma aderente alla realtà, vedo nel tuo lavoro l’influenza dei Nabis e del realismo magico; credi che l’arte sia soprattutto un esercizio di immaginazione?
M – Credo che a volte sia giusto partire dalla realtà per poi distaccarsene. E in questo lavoro più che mai sono partita dagli oggetti che avevo intorno a me. Mi facevano provare quello che da sola non riuscivo a sentire.
Dal momento che si accende la miccia, viene naturale poi concentrarsi su quello che non è visibile e creare le forme che fanno parte dell’inconscio. Seguire questa linea mi ha aiutata a far chiarezza dentro di me, soprattutto ora.
Nel tuo lavoro ricorre spesso la ricerca del desiderio. Che cosa hai desiderato dagli oggetti e dagli spazi?
P – Credo che il desiderio sia una domanda cui è impossibile dare una risposta che non muti nel momento stesso in cui è pronunciata; di fronte alle cose e agli spazi del quotidiano, ammutoliti perché spogliati della possibilità di farsi narratori di storie, credo di aver desiderato che rispondessero alle mie domande.
Anche per questo ho trovato molto stimolante lavorare insieme a te sui temi scelti, senza però mai vedere il tuo lavoro, se non alla fine, quando l’avevamo entrambe portato a termine. Ci siamo poste delle domande e abbiamo risposto in modo differente senza condizionarci, ma influenzando la domanda successiva.
Come hai scelto le scene da raffigurare, di volta in volta? Hai mai posizionato gli oggetti, costruito la scena? Oppure hai lasciato che spontaneamente catturassero la tua attenzione?
M – Sono d’accordo. Partire dalla stessa domanda e scoprire poi una risposta diversa in ognuna di noi, è stato ciò che ha reso forte questo progetto. Più che altro, ci ha fatto capire che anche a distanza è possibile realizzare un lavoro significativo per il momento che stiamo vivendo. È il compito dell’arte: tramandare nel tempo i valori importanti per l’uomo.
Per la rappresentazione delle immagini, alcune volte ho scelto un oggetto che di per sé mi trasmetteva qualcosa, cercando poi di inserirlo in un contesto. Altre volte è stato un puro caso ovvero lui richiamava la mia attenzione quando già era ben incluso nell’ambiente. In più pensavo anche al tipo di materiale che stavo per usare, quindi naturalmente sarà stato anche questo aspetto che mi ha attirato a certi oggetti rispetto che ad altri. E infatti, pensavo che realizzare il progetto in calcografia sarebbe stato diverso sicuramente. Ma se dovessi dire i benefici di lavorare con la xilografia per te quali sono stati?
P – Credo che un progetto di questo genere sia potuto esistere soprattutto grazie alla tecnica con cui abbiamo scelto di realizzarla. La xilografia è un’arte del togliere, e nella sua apparente semplicità esecutiva richiede, in realtà, una particolare consapevolezza e aderenza alle proprie idee, più della calcografia. Oltretutto, è una tecnica in cui non è possibile avere ripensamenti su un segno inciso. Perciò, mi sembra che la lenta pratica dell’intaglio sia il medium perfetto per il tipo di ricerca contemplativa che cercavamo di fare.
Ogni tecnica predispone a un diverso approccio mentale ed emotivo; in molti casi, anche a un vero e proprio rituale, sia pratico che di pensiero. Quali sono le particolarità che ti spingono a scegliere una tecnica piuttosto che un’altra?
M – Ciò che provo, le mie emozioni: sono loro a spingermi in una certa direzione. Se, ad esempio, ho bisogno di elaborare un concetto in modo diretto, senza troppi scrupoli, penso alla xilografia, ora come ora, perché è diretta sia come gesto sia come resa grafica. Tutto va di pari passo con ciò che provo. Non voglio precludermi niente. Nulla poi mi vieta un giorno di continuare la mia ricerca con la stoffa.
E con la grandezza delle matrici come ti sei trovata?
P – Questo aspetto, come sai, mi ha messo in difficoltà. La scelta del formato è stata anche di carattere pratico, dovendo lavorare in casa; ma ho sofferto soprattutto della impossibilità di gestire i segni in modo più gestuale, cosa che un formato più grande mi avrebbe concesso.
E tu cosa faresti diversamente se dovessi ricominciare questo progetto dall’inizio?
M – Forse cambierei alcune composizioni, alcuni oggetti, alcuni segni. Vuoi perché andando avanti, come tutti, i punti di vista cambiano. Vuoi perché vedendo i tuoi lavori, mi sono ispirata a pensare ad altro. Vuoi perché mi piacerebbe avere un tempo più lungo per poi sperimentare degli effetti con il legno. Insomma, porterò con me molti spunti di riflessioni.
Tu invece, cosa ti porti a casa da questa esperienza?
P – Credo che la cosa più preziosa di questa esperienza – insieme naturalmente al dialogo che si è innescato fra i nostri rispettivi lavori – sia stato l’impegno. Mi spiego: questa esperienza, fortunatamente, mi ha messo di fronte ad alcuni dei miei limiti creativi, nuovi e vecchi. In tal senso, l’impegno di portare a compimento anche l’idea meno convincente, la più nebulosa e debole, ha rinforzato in me una antica e banale convinzione: non esistono idee deboli, esistono idee incomplete o trascurate.
Forse la tematica dell’impegno appare adesso così importante perché stiamo vivendo un tempo in cui non c’è spazio per la progettualità. Pensi che un progetto come il nostro sarebbe mai nato in un momento diverso? E pensi che realizzarlo sia servito a riconciliarti con l’impegno e la progettualità?
M– Penso che un progetto sicuramente poteva nascere, ma nel nostro caso è cresciuto diversamente.
Se ci pensi, siamo partite dalla riflessione su un tema che tutti noi tocchiamo e viviamo sempre: abbiamo collaborato, abbiamo fatto squadra, ci siamo confrontate. In un periodo normale, le caratteristiche appena elencate comprendono la nascita di una coalizione concreta, forse più semplice perché visibile, facendoti provare il senso di reale.
Nel nostro caso è stato diverso. Ci siamo ritrovate a viverla da sole. Sapevamo che l’altra non era presente fisicamente e ciò poteva distrarci, farci credere che il progetto non esistesse. Invece é questo ci ha fatto essere più forti, perché dovevamo essere presenti per l’altra, nonostante il mancato confronto faccia a faccia.
Caro lettore, ti lasciamo qui sotto i nostri lavori. Se vuoi lasciare un commento oppure contattarci, ci trovi su Instagram al profilo di Paola Lucrezi oppure sul mio profilo Instagram .