L’arte e la solitudine- articolo per la rivista “il Nuovo Cult”

Tempo fa, ho avuto il piacere di scrivere un articolo per “il Nuovo Cult“, la rivista piombinese nata per creare connessioni tra temi eterogenei come il cinema, la fotografia, la letteratura e l’arte.

Qua sotto vi lascio ciò che ho scritto per loro 🙂

Sembra il titolo di una canzone, ma in realtà è ciò che in poche parole rappresenta per tutti noi il periodo che stiamo vivendo.
Tengo a precisare che questo articolo non vuole intristire nessuno, anzi, vuole far emergere gli aspetti positivi di quando si fa arte oppure se ne fruisce.


In questi lunghi mesi di COVID-19 stare in casa e condurre una vita molto diversa da quella cui eravamo abituati a vivere, ci fa provare un senso di disagio che spesso sfocia in una grande solitudine sociale ed affettiva. Tuttavia davanti a questo deserto di comunicazioni ed interazioni umane, guardare il bicchiere mezzo pieno può esserci d’aiuto.

La curiosità, la voglia di esprimerci nella nostra interezza può farci apprezzare anche il più crudo degli isolamenti. Pablo Picasso diceva: “Senza una grande solitudine nessun serio lavoro è possibile”.


L’arte è il grande strumento che ci costringe a tirar fuori quello che si prova interiormente e che magari non è ancora chiaro dentro di noi, liberandoci spesso da ogni influenza e pregiudizio altrui. L’arte è anche questo: senso di comunicazione, senza dubbio, ma anche mezzo di transizione verso la libertà emotiva.


E allora da dove partire? C’è chi riflette ed elabora le immagini che vagano nella mente, oppure chi rappresenta l’ambiente che lo circonda: tutto, in fondo, serve per ricercare se stessi e trovare le risposte che ci tormentano.


Se non avesse vissuto il momento di solitudine catartica, Vincent Van Gogh non avrebbe
realizzato “Campo di grano con volo di corvi” (olio su tela, 1890, 50,5×103 cm, Van Gogh Museum di Amsterdam).

Campo di grano con volo di corvi - Wikipedia

Fu realizzato dal pittore poco prima della morte ed in molti ritengono che sia la sua ultima opera, dove è evidente il messaggio della fine e quindi del suicidio del pittore. Ovviamente non si sa con certezza se il dipinto corrisponda temporalmente a quest’evento conclusivo, ma sicuramente trasmette appieno il disagio interiore provato prima di tutto dall’uomo e poi dal pittore.


Dipinge il quadro in Francia nelle campagne di Auvers-sur-Oise, ormai diventata sua dimora fissa. Il paesaggio rurale lo affascina e decide di immortalarlo sulla tela e se ne servirà come pretesto per scardinare le emozioni che prova. Nel suo caso rappresentare la realtà vuol dire esprimere lo stato d’animo interiore, cosa che differisce nettamente dall’impressionismo, che raffigura il mondo così com’è.


“Sono delle immense distese di grano sotto cieli nuvolosi e non mi sento assolutamente
imbarazzato nel tentare di esprimere tristezza e un’estrema solitudine” scrive Van Gogh al fratello Theo.

Nell’immagine affiorano grandi dualismi tra la vita e la morte e tra la gioia e il dolore. E tutto questo lo si percepisce immediatamente: il campo di grano tagliato da tre strade sterrate che non hanno né un inizio né una fine e sopra il cielo di un blu intenso che si sfuma con il nero, con l’oscurità che incombe. I corvi prendono il volo, forse, per scappare da una tempesta in arrivo: un deciso sinonimo di confusione interiore.


Le pennellate sono materiche, dense, accese e vanno a creare delle forme che possono
quasi vivere da sole. Forse se estrapolate dal contesto e prese singolarmente, possono
dirci, ad una ad una, che cosa Van Gogh sussurrasse loro. Il ritmo dei segni è vorticoso, proprio come la sua inquietudine.


Capitava a volte che si peritasse addirittura ad usare il pennello ed allora in tal caso, spremeva direttamente il tubetto del colore sulla tela, per non perdere troppo tempo ad esprimere ciò che provava in quel momento. Un’espressione pura la sua.
Malgrado la solitudine che ha provato nel corso della sua esistenza, credo che l’arte sia stata per Van Gogh una compagna fedele.

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